IL PRETORE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella pubblica udienza del giorno 22 marzo 1995 nel procedimento penale a carico di: Ottavi Giammario, nato il giorno 8 settembre 1949 a Cessapalombo (Macerata), ivi residente in frazione Villa n. 58, elettivamente domiciliato in Macerata, presso e nello studio legale del dott. proc. Stefano Migliorelli, del Foro di Macerata; libero - presente; Francucci Luigi, nato il giorno 21 maggio 1954 a Cingoli (Macerata), residente in Treia (Macerata), via Giovanni XXIII n. 27, elettivamente domiciliato in Macerata, presso e nello studio legale del dott. proc. Stefano Migliorelli, del Foro di Macerata; libero - presente; Virgili Mauro, nato il giorno 14 aprile 1938 a Monte San Martino (Macerata), ivi residente in via Crivelli n. 6; libero - assente; imputati: a) del reato previsto e punito dagli artt. 110 del c.p. e 1, lettera g), e 1-sexies della legge 8 agosto 1985, n. 431, perche', in concorso fra loro, nelle rispettive qualita' di presidente della Comunita' montana committente - Virgili -, direttore dei lavori - Ottavi - e di esecutore dei lavori - Francucci -, senza autorizzazione, in territorio coperto da boschi hanno ripulito e spianato ml 426 di pista all'interno di un bosco ceduo, hanno effettuato sensibili movimenti di terra ed hanno effettuato uno sbancamento di terreno violando altresi' le norme del Piano paesistico regionale; b) del reato previsto e punito dagli artt. 110 del c.p. e 20, lettera c), della legge 28 febbraio 1985, n. 47, perche' in concorso fra loro, nelle rispettive qualita' sopraindicate, senza concessione, hanno eseguito i lavori sopraindicati; accertati a San Ginesio fra Monastero e Montalto il 6 agosto 1992. Con l'intervento del p.m. in persona dell'ispettore Giuliano Gigli, ufficiale di p.g. in servizio presso la sezione di p.g. della procura della Repubblica presso la pretura circondariale di Macerata, aliquota Polizia di Stato, vice procuratore onorario, all'uopo delegato. FATTO E DIRITTO In data 22 agosto 1992, l'ufficio della procura della Repubblica presso la pretura circondariale di Macerata emetteva decreto di citazione a giudizio, recante il n. 11407/1992 r.g. Notizie di reato, con cui Ottavi Giammario, Francucci Luigi e Virgili Mauro, meglio qualificati in epigrafe, venivano convocati dinanzi a questa a.g. per rispondere delle fattispecie, meglio individuate in rubrica. In particolare, si contestava ai tre, il terzo dei quali in qualita' di committente, il primo, invece, in veste di esecutore dei lavori ed il secondo in qualita' di direttore dei lavori, di aver realizzato un'opera di ripulitura e spianamento di una pista, per la lunghezza di ml 426 circa, in un territorio boscato tra le localita' Monastero e Montalto del comune di Cessapalombo, senza le preventive autorizzazioni a fini edilizi ed a fini ambientali. All'odierna udienza, avuta la presenza dei soli imputati Ottavi e Francucci, veniva aperto il dibattimento. In esito all'esposizione introduttiva, si procedeva all'espletamento dell'istruttoria dibattimentale, che si compendiava nell'esame dei testi indotti dal p.m. e dalla difesa degli imputati Ottavi e Francucci e nell'acquisizione della documentazione prodotta dalla pubblica accusa e dalle difese degli imputati. Terminata l'istruttoria dibattimentale, le parti concludevano come da separato verbale. L'esame delle risultanze dell'istruttoria dibattimentale dovra' prendere le mosse dall'imputazione ascritta agli odierni prevenuti sub lettera a) della rubrica. Si consideri, a tal proposito, che le emergenze dell'esperita istruttoria dibattimentale hanno consentito l'apprezzamento delle seguenti circostanze: in data 6 agosto 1992, Luciani Pietro, comandante della stazione di Sarnano del Corpo forestale dello Stato, compiva un'ispezione tra le localita' Monastero e Montalto del comune di Cessapalombo, nell'ambito della zona boscata cola' esistente, ove si stavano svolgendo dei lavori di costruzione dell'acquedotto rurale, interessante la zona, condotti dalla ditta del Francucci e sotto la direzione dell'Ottavi: i lavori erano stati commissionati alla ditta summenzionata dalla Comunita' montana zona L, all'epoca presieduta dal Virgili. Secondo gli atti in possesso del Corpo forestale dello Stato, il Ministero dei beni ambientali aveva rilasciato apposita concessione, per l'esecuzione dei lavori summenzionati, la quale prevedeva che il percorso dell'acquedotto avrebbe dovuto seguire la traccia della strada di collegamento tra le frazioni Monastero e Montalto del comune di Cessapalombo; viceversa, il milite operante accerto' che, nel corso dei lavori, si era proceduto alla ripulitura ed allo sbancamento di una pista sita al di fuori del percorso indicato nel provvedimento autorizzatorio, secondo quanto aveva formato oggetto di apposita domanda di concessione in variante, presentata dai responsabili della ditta summenzionata ed intrapresa ben prima di qualsiasi provvedimento di concessione della variante stessa. Le circostanze storiche or ora riferite sono state narrate con estrema precisione dal teste Luciani Pietro (v. in atti). D'altro canto, e' stata acquisita anche la copia del provvedimento di autorizzazione reso in data 2 giugno 1992 dal Ministero dell'ambiente (v. in atti): con lo stesso, al punto 1), si statuiva in maniera ben chiara che "I tratti di acquedotto ( ..) devono seguire il tracciato dell'attuale strada di collegamento tra le frazioni di Monastero e Montalto.". Subito dopo, al punto n. 2), il provvedimento autorizzatorio statuisce che "Durante l'esecuzione delle opere si devono utilizzare le piste di servizio esistenti non procedendo all'ampliamento delle stesse per una larghezza totale massima di mt 2,50 ed il materiale di risulta dovra' essere depositato in un luogo idoneo non vincolato idrogeologicamente.". Orbene, quanto precede fonda il convincimento di questo giudicante circa la sussistenza della materialita' della fattispecie contestata agli odierni imputati: nessun dubbio puo' nutrirsi che i lavori intrapresi, relativi alla ripulitura ed allo sbancamento della pista, corrente in localita' diversa dalla strada di collegamento tra le frazioni di Montalto e di Monastero del comune di Cessapalombo, non formava oggetto del provvedimento di autorizzazione, rilasciato dal Ministero dell'ambiente: con lo stesso, infatti, era stata concessa la possibilita' di procedere alla ripulitura delle piste " ..di servizio ..": nessun dubbio puo' ragionevolmente nutrirsi in relazione alla circostanza che tali fossero soltanto le piste, correnti all'interno della zona boscata, esistenti lungo il tracciato indicato nella autorizzazione (strada di collegamento fra le frazioni sopra indicate), apparendo chiaro il riferimento alla strumentalita' delle piste stesse al tracciato oggetto dell'autorizzazione, che', altrimenti opinando, si giungerebbe alla conclusione che, nell'esecuzione dei lavori, la ditta operante sarebbe stata libera di utilizzare qualsivoglia pista esistente nei pressi delle localita' indicate nel provvedimento del Ministero dell'ambiente ad libitum, secondo meri calcoli di convenienza e senza nulla chiedere alle competenti autorita' il che appare in insanabile conflitto con le finalita' di tutela ambientale, sottese al controllo amministrativo, effettuando dai competenti organi. Si consideri che la pista ripulita ricadeva in zona boscata, sita all'interno del perimetro del Parco dei Sibillini (v., in atti, dichiarazioni, rese dal teste Luciani Pietro). L'autorizzazione ambientale, di cui all'art. 7 della legge n. 1497/1939, ha per oggetto, a seguito delle innovazioni apportate con legge n. 431/1985, tutti gli interventi effettuati nelle zone vincolate, oggetto della peculiare tutela predisposta dal legislatore: nessun dubbio, pertanto, che la ripulitura della pista summenzionata dovesse essere oggetto di nuova autorizzazione e che senza l'apposito provvedimento amministrativo i lavori di ripulitura e di sbancamento si sarebbero presentati come illegittimi, senza che a nulla possa rilevare la circostanza che la pista preesistesse agli stessi e fosse, in epoche precedenti, utilizzata nei lavori di esbosco ed agricoli, essendosi, comunque, verificato intervento soggetto al controllo ed alla preventiva autorizzazione della competente autorita' amministrativa. La sussistenza dell'elemento subbiettivo della fattispecie in disamina appare desumibile dalla circostanza che i responsabili dei lavori si attivarono per ottenere dalla competente autorita' (amministrazione provinciale di Macerata) l'autorizzazione, di cui all'art. 7 della legge n. 1497/1939, relativa ai lavori oggetto dell'imputazione (intrapresi, lo si rammenti, prima del rilascio del provvedimento autorizzatorio): cio' appare indice della consapevolezza della necessita' del provvedimento surrichiamato al fine del compimento dei lavori, sicche' non puo' dubitarsi che l'inizio degli stessi in assenza di autorizzazione sia comportamento ascrivibile alla volontarieta' dei prevenuti, dovendosi ravvisare nella condotta degli stessi, quanto meno, un profilo di colpevole leggerezza. A nulla rileva che, in epoca successiva al controllo operato dal Corpo forestale dello Stato, l'amministrazione provinciale di Macerata ebbe a rilasciare l'autorizzazione richiesta, relativa alla variante in corso d'opera (v., in atti, delibera n. 564 del 14 aprile 1993) e che il competente Servizio decentrato opere pubbliche e difesa del suolo di Macerata ebbe a valutare come nullo l'impatto ambientale dei lavori effettuati (v., in atti, nota n. 896 del 27 gennaio 1993 del Servizio decentrato opere pubbliche e difesa del suolo di Macerata, ove si afferma che "I lavori eseguiti dalla Comunita' montana di S. Ginesio in violazione delle norme di cui alla legge n. 1497/39, a parere di questo ufficio, considerata la loro natura e consistenza non hanno arrecato alcun danno dal punto di vista ambientale."). Si consideri, a tal proposito, che la fattispecie preveduta dall'art. 1-sexies della legge 8 agosto 1985, n. 431, costituisce, secondo le acquisizioni della consolidata giurisprudenza di legittimita' e della maggioritaria dottrina, reato di pericolo e non di danno, tendendo la normativa in disamina a vietare tutti gli interventi tout court, i quali abbiano potenzialita' di immutazione dello stato dei luoghi, oggetto della protezione legislativa. Proprio quanto precede, peraltro, impone di valutare la questione concernente l'illegittimita' costituzionale dell'art. 1-sexies della legge 8 agosto 1985, n. 431. La norma incriminatrice contestata infatti, l'art. 1-sexies del d.-l. 27 giugno 1985, n. 312 (convertito nella legge 8 agosto 1985, n. 431), nell'interpretazione che di essa da il cosiddetto droit vivant, colpisce con le sanzioni penali previste dall'art. 20 della legge n. 47/1985 la violazione delle disposizioni introdotte dalla legge n. 431/1985, indipendentemente dalla circostanza che, nell'ipotesi in cui l'opera eseguita non sia stata preventivamente autorizzata, l'autorizzazione - e con essa l'accertamento della inesistenza di qualsivoglia minaccia all'integrita' del bene tutelato - intervenga successivamente. Tale e' infatti la conclusione ricavabile dalla norma in esame, siccome oggetto dell'ormai cristallizzata interpretazione fornitane dalla suprema Corte (v., in proposito, Cass., Sez. III penale, 5 maggio-11 giugno 1992, Ferrero: "la legge n. 431 del 1985 ha dettato un complesso di disposizioni particolarmente restrittive, dirette a tutelare in modo rigoroso non soltanto l'aspetto paesistico del territorio, in coincidenza con l'interesse garantito dalla Carta fondamentale all'art. 9, ma l'intero assetto ambientale, sia pure sotto il prevalente profilo de quo"; v. Cass., 3 gennaio 1991, Francucci; "In questa prospettiva la costruzione del reato di violazione della legge de qua ( ..) prescinde completamente dall'accertamento di un reale danno al tessuto preesistente. ( ..) In siffatto quadro la sopravvenienza dell'atto da luogo ad una sanatoria soltanto amministrativa e non anche penale. Questa interpretazione ha anche una sua coerenza coincidente con la ratio della legge. Si vuole stimolare il cittadino al rispetto dell'ambiente e delle regole all'uopo predisposte, inducendolo a far transitare ogni sua piu' rilevante iniziativa attraverso il vaglio dell'autorita' competente". Cass., 5 maggio-11 giugno 1992, Ferrero, cit.). Si consideri, ancora che il legislatore non ha espressamente attribuito efficacia estintiva del reato al provvedimento amministrativo favorevole sopravvenuto, a differenza di quanto ha fatto in materia urbanistica con l'art. 22 della legge n. 47/1985. Cio' costituirebbe il chiaro indice di una voluntas legis improntata a disfavore nei confronti di provvedimenti di "sanatoria" post operas in materia paesaggistica. La legittimita' costituzionale di questa disposizione, nell'interpretazione ora riferitane, e' stata sottoposta al vaglio della Consulta in piu' occasioni e con riferimento a diversi profili, onde appare opportuno - oltreche' metodologicamente doveroso - ripercorrerne brevemente la vicenda. L'ordinanza n. 431 del 1991, affrontando il problema della difformita' del trattamento sanzionatorio delle diverse, possibili violazioni della disciplina di tutela del paesaggio (nel senso che l'art. 1-sexies sarebbe applicabile soltanto alle violazioni relative ai beni individuati per categorie astratte dalla stessa legge n. 431/1985, e non anche a quelle relative a beni la cui rilevanza paesaggistica e' stata in concreto accertata dall'autorita' amministrativa come previsto dal sistema introdotto dalla legge n. 1497/1939), ha giustificato l'indicata difformita' sulla base della considerazione che la legge n. 431/1985 ha introdotto un regime di tutela paesaggistica completamente diverso - quanto ai criteri di individuazione dei beni tutelati ed alle caratteristiche della tutela - rispetto a quello stabilito dalla legge n. 1497/1939, per cui, trattandosi di "violazioni operanti su piani diversi", ben si giustifica la difformita' del trattamento sanzionatorio. Peraltro l'ordinanza in esame, pur affermando la radicale diversita' del nuovo regime di tutela sotto il profilo dei meccanismi di individuazione dei beni tutelati ex art. 9 della Costituzione, non si e' discostata, quanto al fondamento costituzionale di detta tutela ed ai conseguenti criteri valutativi che consentono al legislatore ordinario di vincolare questo o quel bene, dalla precedente giurisprudenza costituzionale in materia: l'esplicito riconoscimento, operato mediante rinvio alla precedente sentenza n. 151 del 1986, del "valore estetico-culturale" quale fondamento costituzionale della tutela del paesaggio, e' perfettamente coerente con l'impostazione culturale fatta propria dalla Corte costituzionale in materia di individuazione dei caratteri differenziali delle tutele, ad un tempo differenziate ed interferenti, insistenti sul medesimo ambito territoriale, nel senso che tra i possibili regimi di tutela quello che trova il suo fondamento nell'art. 9, secondo comma, della Costituzione si caratterizza per il fatto di avere ad oggetto la cura dell'interesse estetico-culturale (cosi' Corte cost., 26 aprile 1971, n. 79; 6 luglio 1972, n. 142; e, in particolare, 29 dicembre 1982, n. 239, dove l'affermazione che la Costituzione " ..accomuna la tutela del paesaggio a quella del patrimonio storico ed artistico e detta il suo precetto, come gia' rilevato da parte della dottrina, ai fini di proteggere e migliorare i beni (culturali) suddetti e contribuire cosi' all'elevazione intellettuale della collettivita'."). Questa ricostruzione, pertanto, prende posizione nel dibattito fra le contrapposte tesi, tendenti rispettivamente a qualificare come beni paesaggisticamente rilevanti - e come tali legittimamente assoggettabili alla relativa disciplina - soltanto i c.d. quadri naturali, ovvero a ritenere imprescindibile l'azione della comunita' nella definizione di una nozione di paesaggio individuata nella c.d. forma del Paese: il superamento di queste posizioni, mediante la valorizzazione del profilo dell'interesse posto a fondamento della tutela, consente di affermare che il dato materiale costituito dal suolo assume rilevanza paesaggistica (e diviene pertanto meritevole dell'apposita tutela) a seguito di un giudizio di carattere estetico-culturale, che nel sistema della legge n. 1497/1939 era rimesso alla competente autorita' amministrativa. Nella successiva sentenza n. 67 del 1992, la Corte costituzionale precisa ulteriormente tale profilo: il criterio di individuazione dei beni paesaggisticamente rilevanti introdotto dalla legge n. 431 del 1985, e basato non sull'effettivo accertamento della rilevanza estetico-culturale ma sulla indicazione di una serie di categorie di beni che in via astratta e presuntiva dovrebbero avere tali caratteri (che ne giustificano l'assoggettamento al regime di tutela siccome previsto dall'art. 9 della Costituzione); ha il suo necessario presupposto nel completamento della disciplina ad opera dell'attivita' di pianificazione demandata alle regioni, sulla base della quale " ..possono essere disposte discipline differenziate.". Questa impostazione e' stata poi coerentemente sviluppata nelle successive pronunzie relative alla disposizione in esame. Nella sentenza n. 122 del 1993, con riferimento al fatto che il richiamo operato quoad poenam dall'art. 1-sexies della legge n. 431/1985 all'art. 20 della legge n. 47/1985 non consente di individuare con esattezza quale delle sanzioni contemplate dalla norma richiamata si applichi alla violazione del precetto, si e' affermato che, in ogni caso, " ..l'accentuata severita' di trattamento, che puo' aversi in taluni casi per effetto del carattere non differenziato della disciplina, trova giustificazione nella entita' sociale dei beni protetti e nel carattere generale, immediato e interinale della tutela che la legge ha inteso apprestare.". Nella sentenza n. 269 del 1993, che affronta direttamente l'ipotesi di costruzione in zona vincolata in assenza dell'autorizzazione paesaggistica, poi sopravvenuta, nell'estendere - peraltro con motivazione assolutamente tautologica - le ragioni poste a fondamento delle precedenti dichiarazioni di infondatezza all'indicata fattispecie, si afferma che in dette pronunzie la Corte " ..non ha mancato di precisare di riconoscere congruita' e ragionevolezza alla disciplina anche in relazione al suo palese carattere interinale. Non puo' negarsi infatti che l'applicazione della normativa sulla protezione ambientale abbia posto in evidenza alcuni problemi, segnalando in particolare l'opportunita' di definire le previsioni sanzionatorie in modo che consentano di discriminare meglio il trattamento punitivo in relazione alla effettiva gravita' dei fatti. E' dunque auspicabile che, tenuto conto dell'ormai prolungata vigenza della disciplina il legislatore provveda ad un adeguato riesame della stessa alla luce delle questioni che via via si sono andate ponendo.". Orbene, non essendo intervenuto, nel frattempo, l'auspicato intervento legislativo, e permanendo pertanto gli indicati profili di incongruita' della normativa in esame, sono venute meno, ad avviso di questo giudicante, le ragioni poste a fondamento della giurisprudenza costituzionale fin qui riportata. Il primo dei profili di incostituzionalita' e' relativo al principio di legalita' di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione, ed in particolare alla sua proiezione in termini di sufficiente determinatezza della fattispecie penale, con riferimento al richiamo operato quoad poenam dall'art. 1-sexies all'art. 20 della legge n. 47/1985. Nell'escludere il contrasto con tale principio della norma in esame, la Corte costituzionale, nella richiamata sentenza n. 122 del 1993, ha motivato sulla base del richiamo al diritto vivente, con riferimento al fatto che il carattere univoco della giurisprudenza, nel senso di ritenere applicabile la sanzione di cui all'art. 20, lettera c), " ..fuga ogni preoccupazione di incertezza circa le conseguenze penali della violazione della norma impugnata.". L'affermazione surriportata non ha evidentemente tenuto conto della sentenza 5 maggio-11 giugno 1992 della terza sezione penale della Corte di cassazione (ricorrente Ferrero), la quale ha affermato che il richiamo de quo non riguarda la sola lettera c) ma tutte le ipotesi contemplate nell'art. 20 della legge n. 47/1985, giacche' " ..il legislatore non ha voluto inserire alcun puntuale richiamo alle varie lettere dell'art. 20, lasciando tale compito all'attivita' interpretativa del giudice.". La conseguenza e' che giudici diversi potrebbero applicare a fatti diversi le stesse sanzioni ed agli stessi fatti sanzioni diverse, unica essendo la norma penale incriminatrice contenente il precetto, ma varie (e variamente interpretabili: la decisione citata ne e' un esempio) le sanzioni. Il secondo profilo attiene al contrasto fra la disposizione in esame e l'art. 9, secondo comma, della Costituzione. La sentenza n. 239 del 1982 della Corte costituzionale, di cui si e' riportato un passo significativo, aveva con chiarezza evidenziato come il fondamento costituzionale della tutela paesaggistica implicasse la legittimita' esclusivamente di quei regimi di tutela che di tale fondamento estetico-culturale tenessero conto, o, meglio, che ad esso preordinassero il loro contenuto ed il loro scopo. Ora, non puo' dirsi che l'art. 1-sexies della legge n. 431/1985, nel colpire con la sanzione penale anche gli interventi di cui sia stata accertata - con autorizzazione sopravvenuta - la compatibilita' con i valori estetico-culturali del bene su cui insistono, persegua una finalita' di tipo paesaggistico, nel senso ora visto. L'equivoco di fondo che consente la sopravvivenza di questa palese violazione della Carta fondamentale nasce, forse, per effetto dell'aggiunta dell'aggettivo ambientale alla nozione di tutela paesaggistica: il metodo generalizzante utilizzato dal legislatore della legge n. 431/1985 per individuare i beni paesaggisticamente rilevanti avrebbe avuto l'effetto, secondo tale prospettazione, di mutare i connotati (e la natura) della tutela in questione, consentendo l'utilizzazione dei relativi strumenti (anche) per la protezione di una non meglio definita nozione di ambiente. Questa conclusione non puo' essere accolta. In primo luogo perche' la nozione di ambiente, da un punto di vista giuridico, ha valore puramente convenzionale, indicando il fenomeno della compresenza in un medesimo spazio fisico di diversi elementi materiali, a ciascuno dei quali corrisponde una tutela giuridica differenziata in ragione non gia' (o non solo) delle caratteristiche ontologiche di ogni singolo elemento, ma piuttosto del profilo dell'interesse ad esso afferente (la riferita impostazione della dottrina e' accolta da Corte costituzionale, n. 239 del 1982). In secondo luogo, perche' mai una legge ordinaria che modificasse i criteri di individuazione dei beni tutelati potrebbe mutare l'oggetto della tutela siccome individuato dalla Costituzione. L'accertamento del carattere estetico-culturale puo', in altre parole, essere condotto in tutte le forme che la discrezionalita' del legislatore ritenga di individuare, ma deve pure esserci, affinche' siano legittimamente esercitate le potesta' - compresa quella punitiva - finalizzate (soltanto) alla tutela di tale valore. L'estensione, operata dal legislatore ordinario sul presupposto di una temporaneita' rimasta ormai lettera morta, degli strumenti di tutela paesaggistica a beni (e ad interventi su beni) privi di tale carattere, e per finalita' ad esso estranee (il controllo dell'uso del territorio, o di parti di esso), non autorizza ad affermare una pretesa evoluzione della materia del paesaggio verso gli incerti (e in realta' inesistenti) confini della nozione giuridica di ambiente, implicando semmai - ove si ritenesse, appunto, che i vincoli e le sanzioni dettati dalla disciplina paesaggistica colpiscano fattispecie in cui difetta, rispettivamente, il pregio estetico-culturale ovvero la lesione di esso - l'illegittimita' costituzionale, per violazione dell'art. 9, secondo comma, della Costituzione delle relative disposizione della legge ordinaria. Il profilo di illegittimita' costituzionale ora indicato determina una importante conseguenza. Chiarita la natura del bene tutelato dalla norma incriminatrice, che non e' dunque l'integrita' del tessuto ambientale (tutelata, nelle sue diverse componenti, dalla disciplina urbanistica, da quella sull'inquinamento, ecc.) ma il patrimonio estetico-culturale del paese, occorre verificare le implicazioni della ricostruzione giurisprudenziale della fattispecie criminosa in esame nei termini descritti dalle richiamate decisioni della Corte di cassazione. Non puo' non rilevarsi una irragionevolezza della disposizione in esame, nella parte in cui sottopone alla medesima sanzione sia l'ipotesi di esecuzione di un'opera priva di autorizzazione (perche' non richiesta o per essere l'opera medesima non assentibile), sia quella in cui l'opera eseguita sia stata successivamente autorizzata. La precedente pronunzia di rigetto non presenta, sul punto, una motivazione particolarmente approfondita. La giurisprudenza della Corte di cassazione citata allega invece motivazioni del tutto formalistiche, fondate su un parallelo fra autorizzazione paesaggistica e concessione edilizia che pare improponibile, attesa la profonda differenza strutturale dei vincoli che ciascuno di tali provvedimenti e' chiamato a rimuovere (Corte costituzionale, sentenza n. 56 del 1968), e prima ancora la diversita' delle materie - e dei relativi principi - cui detti provvedimenti afferiscono (" ..diversita' di scopi, di presupposti e di oggetto .." evidenziata peraltro nella sentenza n. 269 del 1993 della Corte costituzionale). La sopravvenienza dell'autorizzazione, se non e' tale da escludere la messa in pericolo del bene tutelato (sia pure con tutte le riserve fin qui espresse in ordine alla sussistenza di questo), purtuttavia ne esclude certamente la lesione. Ne consegue che il trattamento sanzionatorio risulta il medesimo, pur in presenza di una cosi' rilevante difformita' delle modalita' di aggressione al bene tutelato. Se cio' si riveli ancora giustificato e giustificabile in considerazione dell'asserito carattere temporaneo della disciplina, ovvero della fiducia nell'intervento riequilibratore del legislatore, e' questione ormai di agevole soluzione. La configurazione del reato in esame come reato di pericolo, e precisamente di pericolo astratto o presunto, anche in considerazione delle argomentazioni fin qui sviluppate con riferimento alle difficolta' di individuazione del bene tutelato, pone un problema di compatibilita' con il principio di necessaria offensivita' del reato, desumibile dal plesso normativo costituito dagli artt. 3, 25, 27 e 13 della Costituzione. La teorica dell'offensivita' del reato si fonda, come e' noto, su diversi percorsi ermeneutici. Da un lato si ritiene che gli artt. 25 e 27 della Costituzione, nel prevedere come conseguenze della violazione della legge penale una duplice tipologia di sanzioni, in funzione del tipo di violazione (nel senso di escludere l'applicazione della pena ai fatti di mera disubbidienza), impedirebbero la punibilita' (ma non l'irrogazione di misure di sicurezza) dei fatti inoffensivi. D'altro canto si sostiene che il sacrificio della liberta' personale, garantita dall'art. 13 della Costituzione, non possa ammettersi se non per l'esigenza di tutelare un concreto interesse. Quale che sia l'impostazione preferibile, la dottrina concorda su di un punto: il principio di necessaria offensivita' del reato puo' subire deroghe, laddove sia necessario anticipare la tutela sino alla soglia della astratta pericolosita' in considerazione della natura del bene, salvo pero' a recuperare sul piano della tipicita' il deficit di lesivita' delle condotte incriminate. Al contrario la normativa in esame si rivela estremamente carente sotto questo profilo, sia con riferimento al precetto che alla sanzione. Il rischio e' che la limitazione del bene inviolabile della liberta' personale non avvenga, nella materia de qua agitur, in un'ottica di bilanciamento degli interessi costituzionalmente protetti, ma piuttosto nella prospettiva di una funzione promozionale del diritto penale, evocata dalla giurisprudenza della cassazione citata in precedenza al punto che, al di la' dell'affermazione o meno della sua incostituzionalita', v'e' da chiedersi quanto tale regime sia di effettivo giovamento alla tutela del bene protetto. Si consideri che, in tale ottica, si finirebbe per punire in maniera sproporzionata all'effettiva lesivita' della condotta criminosa, con lesione anche del finalismo rieducativo della sanzione criminale, che impone la comminatoria di pene adeguate al disvalore sociale delle fattispecie illecite. Inoltre, si ponga mente alla circostanza che, laddove un danno ambientale si sia verificato e risulti applicabile la norma di cui all'art. 734 del c.p., il soggetto verrebbe sanzionato con una pena che potrebbe risultare inferiore a quella comminabile al soggetto che, come nella fattispecie concreta sottoposta all'odierno vaglio di questo giudicante, ha posto in essere una condotta che, seppur formalemente priva dei requisiti di legge, appare, in concreto, tutt'affatto sfornita delle caratteristiche lesive dell'interesse giuridico tutelato, proprie del comportamento sanzionato dall'art. 734 del c.p., con evidente conflitto con il principio di eguaglianza sostanziale di cui al secondo comma dell'art. 3 della Costituzione.